venerdì 15 maggio 2009

Vicissitudini di un trekkista in erba






Di Simone Sottosopra (dopo l’esperienza)

Tutto ebbe inizio il bel (????) giorno che il sottoscritto, ormai inveterato escursionista (credeva lui) , si volle associare a una sinistra accolita di trekkers. Accettando un programma di tre giorni, mi arriva la scaletta degli eventi. E leggo, testualmente: Giorno 1: Orrido di Botri. Portare scarpe da ginnastica e costume da bagno per la risalita dell’orrido.
Tu cosa avresti pensato ricevendo questa comunicazione ? Esattamente ciò che ho pensato io, : e cioè, che, scartando per ovvi motivi l’ipotesi che quell’orrido di cui si parla sia un uomo orrendo e bruttissimo, si tratti invece di un luogo orrendo, precipuamente a motivo – ritenevo -della sua conformazione orografica. In altre parole, mi aspettavo un’aspra montagna da “risalire”. Ma che organizzatori gentili, premurosi: hanno persino pensato che farà tanto caldo che bisogna portare il costume da bagno per stare meglio, da spogliati. Le scarpe da ginnastica non me le spiego altrettanto chiaramente: non andavano bene gli scarponcini da montagna? Comunque, faccio spallucce.
Ipotesi , o meglio aspettative, le mie, che si sono duramente scontrate con la realtà dei fatti. Un “orrido” , nel linguaggio evidentemente cifrato degli appassionati di montagna, è uno stretto canyon, insomma una gola sul fondo della quale scorre un fiumiciattolo. Mi informano comunque che questa voce è presente anche nell’enciclopedia Trekkani.
Sgomento e terrore quando scopro che dovrò arrancare in queste gelide acque che in piena estate, quando sono un po’ più calde, raggiungono la temperatura di 17 gradi sotto zero all’incirca.
Ma devo sobbarcarmi, stoicamente per quanto me lo consente la mia dignità, anche questa. Per quanto riguarda la dignità, il ridicolo elmetto che siamo costretti ad indossare ne cancella poi anche le ultime tracce.
Sopravvivo. Il posto è bellissimo, ma i miei piedi sono un po’ irritati con il loro proprietario, e le loro rimostranze si fanno sentire esponendo rosse chiazze qua e là. L’effetto estetico, bisogna riconoscerlo, è veramente “orrido”.
Insomma, poi trasferimento in macchina fino al rifugio dove si dormirà per la notte. “a poca distanza” dice la guida. Dopo due ore che giriamo ci accorgiamo, avvertiti da un sesto senso (credo che dire “da un angelo” sarebbe poco credibile), che la guida (!!!) ha sbagliato strada e ci sta conducendo in tutt’altra direzione. Dopo un convulso dietro-front arriviamo, tra balze e contrafforti, monti e vallate, colline e pianure, laghi e città, al rifugio, situato a Km 1,756 circa oltre i confini della civiltà conosciuta (dire “a casa del diavolo” sarebbe riduttivo – so anche che qualcuno ha tirato in ballo il posteriore dei lupi, con altrettanta approssimazione). Cena con la testa ciondolante sul piatto. Camerata per sette persone, con tutti gli umori, gli odori e i rumori che si possono immaginare. Meno male che tra i due opposti schieramenti (composti da vittime e perpetratori dell’arte di russare), io sto dalla parte vincente; il mattino dopo quattro persone (le vittime) esibiscono facce spettrali e profonde occhiaie in perfetto stile Conte Dracula , e biascicano parole confuse, nel delirio della sonnolenza, a proposito di “concerti notturni” e “crescendo rossiniani”! Io faccio finta di niente, insieme agli altri due russatori, tutti quanti con le facce riposate e l’occhio arzillo, proprio come me. Mi limito a rivolgere loro un sorriso ebete che vorrebbe essere di simpatia.
“Fate presto” ci aveva ammonito il gestore del rifugio, “perchè le previsioni danno maltempo per il primo pomeriggio”. “Sciocchezze” assicura la nostra guida, licenziando con sufficienza la pessimistica previsione dell’improvvisato metereologo. Però, siccome non si sa mai, per battere sul tempo l’eventuale pioggia e potere fare la nostra bella camminata di sei ore, ci precipitiamo – praticamente – sulla strada con un’ora e passa di anticipo sul programma, e cioè prima delle 8.00.
Precipitano gli eventi, come pure altre cose. Ore 9.00, quota 1600 s.l.m.: il clima, venuto a conoscenza del nostro piano di batterlo sul tempo, ha subdolamente deciso di batterci sul tempo, fregandoci con un piovasco di diluviana memoria. I miei compagni, però, montanari di lungo corso, sono attrezzati di tutto punto: giacche a vento costosissime, mantelline impermeabili, indumenti di Gore-tex (che ancora non ho ben capito cos’è, ma tutti loro ne parlano), sottomaglie termiche da sci, bastoncini telescopici (anche qui non sono riuscito a capire cosa c’entra l’astronomia) occhialoni in pieno stile K-2; insomma, la pioggia per loro è quasi una bazzecola. Io, invece, zingarello dei monti, con una giacchetta stile Happy days, il mio bastoncino di legno da turista di Canazei, e lo zaino tirolese alla Hansel e Gretel, mi trovo un po’ più a malpartito. Diciamo che sono fradicio fino alle ossa (le ossa si possono bagnare? Dirai tu. Ne sono certo, dopo questa esperienza, pur non potendolo provare scientificamente.) Mi si strappano pure i pantaloni, ed offro lo spettacolo penoso di uno squallido aspirante imitatore di Full Monty. Durante una breve sosta in un luogo al riparo dalla pioggia una compagna di escursione – non so se perchè impietosita oppure per assecondare le mie ormai evidenti tendenze esibizionistiche - mi offre la sua canottiera femminile (asciutta). Rifiuto sdegnosamente: non sono ancora caduto così in basso da emulare i viados brasiliani! Sulla strada del ritorno, nell’incrociare alcune macchine, sono costretto a mettermi praticamente su una gamba sola –quella con il pantalone ancora integro - come i trampolieri per celare le mie vergogne.
Al ritorno al rifugio, ad una prima ispezione degli scarponcini, noto con una certa apprensione che vi sguazzano allegramente dentro pesciolini rossi e alghe di guam. Mancano però le piantine di riso. Pazienza! Anche oggi niente sushi.
Per ispirazione divina però avevo messo in macchina le mie scarpette di tela bianche, un po’ patetiche ma tanto comode – e soprattutto asciutte. Mi hanno salvato la vita. La mia ritirata verso l’agognata terra emiliana, la mattina dopo, aveva il sapore dolceamaro dell’ostinato e orgoglioso esilio garibaldino a Caprera. Nelle mie ultime volontà lascerò una postilla per riscattare la figura di Fantozzi, essendomi calato nel personaggio con le mie traumatiche esperienze.
Prosit!














De refugio peccatorum

Come postilla alle “vicissitudini” ho pensato di redigere un aggiornamento su di una condizione esistenziale praticamente inerente i trekkaroli più ostinati, una sorta di estensione dei loro stessi corpi: i rifugi montani.
Tanto per cominciare, pur nella mia limitata – ma sofferta – esperienza, credo di aver capito il perchè di questa nomina. Credo proprio infatti che risalga e sia in riferimento allo stato di rifugiati , quella classe di persone sempre spostate dalla propria realtà, confinati ad una condizione di deprivazione e stress.
Sì, perchè io credo che ogni rifugio che si rispetti dovrebbe recare sulla facciata, al di sopra della porta d’entrata, una scritta emblematica di ciò che vi si troverà, in maniera da non dar luogo a nessuna pietosa ed equivoca illusione da parte degli intrepidi escursionisti che ne varcano la soglia, con gli occhi lustri di emozione al pensiero del conforto che vi troveranno dopo una dura giornata di lotta con gli elementi e con le proprie imbranataggini.
La scritta dovrebbe leggersi - tralasciando il forse un tantino esagerato e dantesco “lasciate ogni speranza o voi che entrate”- in questi termini: “diteci che cosa vi serve e vi insegneremo come farne a meno”.
Da qui la descrizione, su molti depliant, del rifugio come situato in luogo “ameno”. I correttori delle bozze hanno sempre, biecamente e con malvagia intenzionalità, sorvolato sul refuso accorpando le due parole in una sola.
Ho letto una volta, in un rifugio, un depliant di “istruzioni per l’uso” che mi sembrava preso pari pari dal programma di Auschwitz. E’ vero, c’era forse qualche deroga al programma originale, ma il trattamento in fondo prevedeva qualcosa di poco dissimile.
N° 1: ma i bidet, i gestori dei rifugi, non lo sanno che sono stati inventati circa un secolo fa? Sarà anche vero che in quel contesto di tutto si avrà voglia tranne che di quella certa cosa ..... ma insomma, i bidet servono anche ad altro.
Poi c’è la questione del sovraffollamento stanziale (cioè nelle stanze). E poi dicono: “oh, il mondo non ce la fa più a sostenere tutta questa popolazione in crescita” . E perchè un onesto trekker ce la dovrebbe fare? Ti stipano gli escursionisti in modo da fare invidia a una fabbrica di sardine in scatola, ammucchiandoli impietosamente uno sull’altro...Dice: “però nei rifugi non ci sono nè mosche nè zanzare”. Ovvio! Dove lo trovano lo spazio fisico per volare? Senza contare che la gassificazione naturale è talmente elevata che i poveri insetti corrono il rischio dell’estinzione.
E se poi fosse legale avere letti a castello a tre piani, ci sarebbe sempre il malcapitato di turno (in genere l’ultimo a portare le sue cose nella camerata – altro termine di provenienza sospetta, fra l’altro) che dormirebbe con il naso rasente il soffitto, incidendo con esso graffiti più o meno apprezzabili dalle generazioni future.
Il problema dei letti a castelli è in effetti grave e doloroso, e permane come una cicatrice aperta sull’animo dell’escursionista. Se sei quello che dorme di sopra, il pericolo è evidente: visto che il trekker medio è abbondantemente sopra gli “anta”, ha generalmente qualche limite atletico, per usare un eufemismo. La copertura assicurativa, anche se non lo sapevate, si riferisce a questa fase particolare dell’escursione: scendere e salire dal piano di sopra del bunk bed. Arrivare a quota 2000 è una bazzecola in confronto, visto che spesso le scalette non esistono.
Se poi ti capita di dormire di sotto, anche peggio: il rollìo e il beccheggio ricordano una via di mezzo tra la traversata Civitavecchia- Golfo Aranci e una nave negriera, con tutti gli scricchiolii e i “gnic gnic” della stiva di un antico veliero. Il peso del compagno di sopra è determinante (oltre che nello stabilire la misura di angoscia di chi dorme sotto) nello spostamento baricentrico del letto. Potrei anzi azzardare una formula matematica di rapporti fra pesi e misure, ma sento che non è il caso.
Insomma, usare il termine “spartano” in riferimento ai rifugi è generalmente un understatement, e sono certo che se i temerari guerrieri del Peloponneso ne fossero informati si sentirebbero all’avanguardia del modernismo e del comfort.
Poi: la dislocazione dei rifugi. Non ti basta aver scarpinato per ore ed ore, sotto la neve, sotto la tormenta, sotto il sole cocente. No! Ti tocca pure guidare per le stradine più dimenticate da Dio, sfiorando ad ogni curva il bordo del dirupo, per poi vedere che c’è sempre una curva in più, un chilometro in più, una sfida in più alla tua immaginazione di dove può davvero arrivare la civiltà – se così si può definire.Infatti, quando arrivi quasi non ci credi. Baciare la terra appena si scende dalla macchina è una reazione assai diffusa fra gli escursionisti, soprattutto quelli che hanno visto i telegiornali che si riferivano ai viaggi di Giovanni Paolo II. Ne condividono lo stesso sollievo per avercela fatta.








Lider maximo

Per concludere la mia “trilogia della montagna” (vedi: 1- Vicissitudini…e 2 – De refugio peccatorum) ho pensato di esprimere qualche pensierino su di un elemento indispensabile nelle camminate: la guida.
La guida è un personaggio curioso, inimitabile, e se non ci fosse bisognerebbe inventarlo.
Adesso come adesso, comunque, sembra più il risultato di un’esplosione da set di “piccolo chimico”.
Ma che volete, egli è un amico, un fratello, un compagnone, un padre, una spalla su cui piangere anche, perfino un confessore a volte, quando vi guarderà con cipiglio austero come a chiedervi se avete peccato in pensieri parole ed opere mentre arrancavate nel tentativo di stargli al passo sull’impegnativo tracciato con dislivello metri 3 e mezzo e poi con la sua consueta magnanimità vi assolverà per non aver commesso il fatto dopo avervi ascoltato, con aria condiscendente, farfugliare patetiche scuse improponibili riguardo al pensiero di qualche vecchia zia malata a casa che vi ha impedito di fare del vostro meglio. Abbozzerà un sorriso da duro uomo di mondo e il vostro segreto sarà per sempre in salvo con lui.
E’ anche vero che a volte sa trasformarsi in un feroce negriero, e ci si chiede se non tirerà fuori una frusta sul più bello, mentre voi rimpiangete il giorno in cui avete deciso di darvi al trekking. Solo la guida sa leggere, su carte topografiche aggiornatissime, le indicazioni più adeguate per sbagliare strada e arrivare direttamente in Congo mentre eravate sull’altipiano di Asiago.
Una guida ha un po’ del Furher e del Papa, un po’ del santo e del navigatore, ma non del poeta: i cedevoli sentimentalismi non fanno per lui, perché ha la responsabilità di voi, debolucci e patetici trekkaroli della domenica. Egli è un po’ sergente nella neve e ufficiale e gentiluomo, una figura d’altri tempi ma dotata di cellulare satellitare con navigatore – non si sa mai.
Ma chi altri come lui sa condurvi in un ambiente fiabesco da cui vi aspettate di veder sbucare fuori da un momento all’altro Biancaneve e i sette nani? A volte però vi chiedete se quella nonnina indifesa che incontrate non sia in realtà il lupo cattivo travestito, quando sentite quel che le esce di bocca se le pestate le petunie mentre passate davanti alla sua casetta piccolina in Canadà.
Se la guida è un bellimbusto – e purtroppo può succedere- potrebbe popolare i sogni romantici delle signore/ine al seguito dell’escursione; potrebbe popolare anche quelli dei maschietti ma qui in veste di capro espiatorio, da sottoporre al lancio di oggetti di varia tipologia (preferibilmente pesanti) per le sette camicie che vi ha fatto sudare durante il giorno.
E veniamo ai consigli pratici utili a salvaguardare la salute (mentale e non) dei trekkaroli non avvezzi a trattare con questo pernicioso esemplare del genere umano.
Una piccola avvertenza sarebbe quella di evitare, la volta successiva, la guida che all’arrivo dopo un’escursione prostrandosi bacia il terreno inondandolo di lacrime, grata di aver raggiunto la meta. Guardatevi anche da quelli che prima di un’escursione vi chiedono di fermarvi nella chiesetta per accendere un cero alla Madonna: purtroppo non è una dimostrazione di fervore religioso. Inutile dire che quelli che propongono, il 31 Gennaio durante una camminata sulle ciaspole, una “piccola deviazione” per vedere un “meraviglioso” lago di montagna, hanno già concepito nella loro mente machiavellica un diabolico piano per farvi immergere, una volta là, come mamma vi ha fatto nel pittoresco (ma caratterizzato da temperature abbondantemente sotto lo zero) specchio d’acqua.
Ma dopotutto, che sarebbe il mondo senza le guide alpine? Forse un mondo meno pericoloso, ma certamente meno avvincente!
Quindi, benediteli, siatene grati e soprattutto….teneteveli buoni, che vi conviene.

di Simone Sutra